Lo Yoga tra India e Occidente
Comprendere la differenza tra le due culture è fondamentale per farci realmente entrare nella comprensione di questa splendida e antichissima disciplina per l’essere umano.
Lo Yoga nasce in India nella notte dei tempi; c’è un mito che racconta di come lo Yoga sia arrivato a essere un patrimonio anche degli esseri umani; in questo mito si narra in esso che sulle rive di un fiume il dio Shiva stesse insegnando lo Yoga alla sua compagna, Devi; per caso un pesce ascoltò gli insegnamenti del dio e, grazie al potere dello Yoga, si trasformò in essere umano e iniziò a diffondere tale disciplina tra gli umani. Ecco che lo yoga diviene una disciplina che accompagna filogeneticamente lo sviluppo sulla Terra, se pensiamo che l’origine della vita è proprio nell’acqua, ma anche ontologicamente accompagna nello specifico l’essere umano, che nel passaggio tra ‘il cielo e la terra’ vive per nove mesi e si prepara alla vita sulla Terra nell’elemento acqua.
All’interno di ogni cultura il mito è rivestito di un’autorevolezza intrinseca, è come se non fossero le persone a comunicare attraverso i miti ma essi che comunicano attraverso le persone. “Essi offrono nella loro stessa struttura una chiave di interpretazione della realtà” .[Claude Lévi-Strauss, antropologo, etnologo e filosofo francese]. Alcuni miti,poi, hanno dei ‘codici’ universali , che risuonano nell’ essere umano al di là della cultura di appartenenza. Il mito dell’origine della diffusione dello Yoga agli esseri umani, è collocato nella cultura indiana, ma il significato profondo non è strettamente legato ad essa: la disciplina yoga appartiene a tutti gli esseri umani e, dalla notte dei tempi, ne guida l’evoluzione.
Pur nell’universalità del messaggio dello Yoga, se vogliamo entrare in una prospettiva di comprensione di esso, non possiamo non considerare la cornice culturale in cui è nato e si è inizialmente diffuso e, nello stesso tempo, non considerare il punto di vista da cui noi lo stiamo osservando. Attraverso la considerazione delle radici terrene dello yoga, possiamo arrivare al suo valore universale, andando oltre le relatività culturali reciproche.
Lo yoga in Occidente è stato interpretato alla luce di una visione etnocentrica, cioè abbiamo “convertito” tale disciplina, o ancora meglio chiamarlo Principio di Unità, nelle nostre coordinate culturali, tralasciando di considerare che la prospettiva da cui parlano i testi sacri indiani e i maestri , è una prospettiva storico e culturale diversa dalla nostra, per cui necessita di uno studio approfondito e di una collocazione storico-culturale.
In particolare lo yoga che si è diffuso negli ultimi dieci anni in Italia è passato attraverso un filtro che ne ha appiattito alquanto lo spessore, un filtro probabilmente reso necessario per farlo diventare una pratica per l’occidentale.
Due psicologi dello sviluppo, l’uno russo Lev Semënovič Vygotskij (1896-1934), l’altro americano, Jerome Seymour Bruner (1915-2016) sostengono che la cultura è intrinseca nell’individuo e nel suo sviluppo e che non è possibile isolare lo studio del bambino, l’adulto di domani, dal contesto sociale e culturale in cui è inserito. Il bambino acquisisce la conoscenza del significato degli eventi attraverso la partecipazione attiva a un contesto interattivo, fatto di relazioni non solo con le persone che ha attorno,ma attraverso loro, con il linguaggio e gli ‘artefatti culturali’.
Gli artefatti culturali possono essere sia oggetti tecnologici, come ad esempio la bicicletta, l’orologio, il computer, la penna, etc. sia gli strumenti concettuali :il linguaggio, le teorie scientifiche, le credenze religiose. Questi strumenti della cultura di appartenenza ci forniscono una cornice entro cui inserire le nostre modalità di pensare e le interpretazioni del mondo e delle esperienze che facciamo. Pensate ai ragazzi di oggi nati con la tecnologia di internet, dei telefonini: il loro rapporto con essa è completamente diverso dal nostro, genitori, educatori adulti, la loro mente è già da subito sintonizzata e abituata all’uso di tali tecnologie.
In una cultura in cui il tempo ha un valore, per esempio, saranno importanti gli strumenti culturali relativi al esso, come le parole mattino, pomeriggio, domani, etc. ma anche strumenti come i calendari o gli orologi….
Secondo alcuni psicologi dello sviluppo, le stesse emozioni e le percezioni sono legate alla cultura; in questo caso le emozioni sono viste in una relazione dialettica tra la risposta fisiologica e l’interpretazione dell’evento, che ha valenza cognitiva, quindi cade in un ambito di influenza culturale. La percezione della realtà è quindi frutto di un’ interpretazione che è influenzata dalla cultura di appartenenza: gli indigeni dell’Amazzonia che erano abituati a muoversi nella foresta, portati in cima a un altura confondevano i bufali a valle per insetti.
Quindi se ci domandiamo quanto la cultura influenza il nostro modo di vivere, di rappresentare la realtà, possiamo dire che ognuno di noi si muove, più o meno consciamente, dentro a delle cornici di senso nate all’interno di una cultura, rappresentazioni ‘ culturali’ del mondo che ci fanno interpretare la realtà. Con il passare del tempo e l’accumularsi delle esperienze, divengono tipiche di una sfera culturalmente pertinente e, in quanto tali, vengono applicate anche a pezzi di realtà che ci troviamo a conoscere per la prima volta. Pensate a come ogni cultura tende ad interpretare il comportamento di una persona fuori dalla sua cultura facendolo rientrare nei propri codici esperienziali.
Quindi è assolutamente nella norma che della disciplina yoga, nata in India nella notte dei tempi, noi abbiamo colto solo alcuni aspetti, abbiamo tradotto a modo nostro alcuni termini, letto a modo nostro l’evoluzione di tale disciplina, preso ciò che ci confaceva di più, cioè si adattava meglio alle nostre ‘cornici di senso’ nate dal nostro contesto culturale-esperienziale.
Ad esempio il concetto di Bramacharya, una dei cinque Yama,divieti, descritti negli Yoga Sutra di Patanjali, è stato inizialmente tradotto come ‘astinenza sessuale’ , cosa che faceva sottintendere che, siccome la sessualità è qualcosa di impuro, va eliminata per un cammino spirituale, considerato ‘puro’. Ma questo è più un pensiero cattolico, che indiano. Negli ultimi dieci anni, forse perché è cambiata la nostra società a riguardo, il termine bramacharya viene tradotto in ‘continenza sessuale’. Da astinenza, in cui c’era sotteso un giudizio molto forte, morale sul sesso a un giudizio più tollerante.
Il concetto che c’è dietro il Bramacharya è stato tradotto nelle cornici di interpretazione della nostra società in cui la religione cattolica ha per molto tempo dato un giudizio fortemente negativo sulla sessualità. Questo termine indica un traguardo da raggiungere in vista di un percorso spirituale che porterà inevitabilmente a lasciare il ‘bisogno innaturale’ della sessualità, verso una naturalità di essa. Inoltre alcuni esseri umani, ad un certo grado di sviluppo spirituale, non necessitano più della sessualità né da un punto di vista fisiologico né come incontro profondo con un’altra anima, e, come si evince, questo non è un giudizio che contrappone la sessualità alla spiritualità. In India non c’è la religione cattolica come religione principale, non c’è stata la Santa Inquisizione che ha bruciato una conoscenza antica bruciando le ‘streghe’; in India ci sono dei tempi sacri in cui sono scolpite scene di sesso, ovunque si trovano Lingam e Yoni, che rappresentano i genitali maschili e quelli femminili, considerati sacri, in particolare il lingam di Shiva è venerato: come possiamo pensare che in India abbiano lo stesso giudizio sul sesso che abbiamo noi. Quindi il concetto di Bramacharya, così come tutti i concetti e, non solo, anche la simbologia, che ci sono arrivati dalla tradizione dello Yoga, necessitano di una lettura ‘culturalmente situata’ del contesto in cui sono nati.
La cultura non è qualcosa di statico, alcuni elementi vengono modificati nel tempo, quindi l’epoca storica determina alcune peculiarità culturali; oggi siamo in un’epoca in cui le distanze fisiche tra le culture si sono ‘virtualmente’ assottigliate, quindi l’influenza tra culture diverse è elevata; questo determina da una parte un incontro con culture che avremmo potuto non incontrare mai nella nostra vita e dall’altra il rischio di giudicare superficialmente le altre culture senza accorgersi della nostra prospettiva relativa.
Vero è che all’interno di ogni cultura esistono persone che per qualche motivo hanno più legame, affinità con culture lontane da loro; risuonano di ‘altro’ e si adattano poco facilmente al contesto in cui vivono. Questo non nega ciò che abbiamo detto prima. Alcune persone nascono per mostrare, di una certa prospettiva culturale, i limiti, per indirizzare un popolo verso qualcosa di nuovo.
Iniziamo a mettere a confronto la cultura in cui nasce lo Yoga, quella indiana, con la nostra cultura, la chiamo Occidentale perché l’Italia, che aveva delle sue proprie tradizioni, sta sempre di più assomigliando all’America, punto di riferimento per tutta la cultura occidentale. Della cultura indiana mi interessa ciò che più influenza lo yoga, cioè l’aspetto del sacro, il rapporto con le parti costitutive dell’essere umano, la concezione del divino e dell’essere umano in rapporto al divino.
Possiamo dire che la nostra non è società in cui c’è spazio per lo spirituale, è una società fondata sempre di più sul profitto, sull’accumulo di ricchezze materiali, sull’acquisizione di uno status economico che ci permetta di pagare le tasse e mantenere questa struttura più economica che politica direi. L’India conserva ancora una spiritualità antica. E’ normale in India bagnarsi nel Gange, fiume considerato sacro, adorato come una divinità; qui le persone rendono omaggio ai loro antenati e ai loro dei, offrono fiori, petali di rosa..
Vi immaginate la abluzioni in uno dei nostri fiumi? Altro che considerare divino un fiume o offrire petali di fiori, qui, purtroppo, le persone lo usano come discarica.
Guardiamo la loro medicina ufficiale, l’Ayurveda: è un’arte medica che si tramanda da millenni; per curare usa erbe, massaggi, l’alimentazione; studia e cura l’essere umano attraverso l’esame delle sue componenti primarie:’ vata-pitta-kapha’ che sono i principi chiave dalla cui combinazione nasce sia l’Universo sia la composizione psicosomatica di ciascun individuo.
Per quello che riguarda il rapporto col divino, la cultura Indù ha un assioma che è Tattwamasi, che significa l’identità dell’essere umano con il divino. Noi abbiamo un Dio lontano, che ci guarda dall’alto dei cieli e ci giudica. Come una cultura rappresenta il divino, influenza profondamente le persone che vivono tale inconscio collettivo.
In India è normale considerare un essere umano un’incarnazione della divinità; Parahamsa Yogananda, yogin del secolo scorso, che approda in America nella seconda metà del XIX secolo, racconta di un maestro indiano che girava nudo e, dato che socialmente era riconosciuto come un maestro, gli era permesso. Immaginiamo cosa succederebbe da noi, grideremo allo scandalo.
La società indiana è una società ancora legata al corpo, al contatto con esso, anche attraverso un contatto con la natura, che può essere ostile, ma questo, così come una vita legata alla cura dell’anima nel quotidiano, tengono vivo il senso della realtà. In una società come la nostra dove esiste il virtuale, dove si gira in macchina, si sta otto e più ore davanti ad uno schermo, il senso della realtà, che è fatto di relazione, incontro-scontro con il mondo, è possibile perderlo. Allora ci sentiamo soli. Inutile dire che non si è soli perché la relazione esiste a partire dalle cellule del corpo che attraverso la relazione e la collaborazione ci fanno respirare, mangiare, dormire, camminare, pensare, provare sentimenti emozioni…..
La cultura indiana non è passata attraverso la scissione tra mente e corpo, come abbiamo fatto noi. L’essere umano esiste in un’unità di corpo, mente, anima e spirito, e alcuni esseri, considerati divini, esistono per ricordare agli altri esseri umani che è possibile realizzare in piena coscienza tale unità.
Paradossalmente, proprio nella nostra società, fondata sul denaro, oggi più che mai c’è bisogno e ricerca di spiritualità; questa società la reclama, ecco perché tante persone sono affascinate dalle tradizioni e filosofie orientali: il buddismo, lo yoga trovano tante persone affezionarsi perché si sente che in quelle tradizioni c’è qualcosa che nella nostra società si è perso, nel tempo, lentamente…
Allora cosa possiamo trovare o cosa cerchiamo nello Yoga, che va al di là delle distanze culturali?
La forte connotazione spirituale, intesa come tensione e relazione dell’individuo con la sua parte trascendente, è ciò che di universale è nella disciplina Yoga e che risuona nell’essere umano al di là della cultura di appartenenza.
Lo Yoga è un’apertura a trecentosessanta gradi sul mondo, sulle esperienze che facciamo; è la realizzazione di un essere umano che vive il mondo in un rapporto di identità tra il sé e l’Universo: il fine dello Yoga è il Samadhi, che è accedere all’universalità del Sé al di là dell’individualità.
La via dello Yoga porta ad espandere la coscienza, a risvegliare piani di noi che esistono in potenza, organi di percezione (i chakra) che ci aprono ad una visione diversa del mondo. Paradossalmente è come tornare a guardare con gli occhi del bambino, che vedono il mondo liberi dai pregiudizi, dai condizionamenti perché ancora non fissati nella struttura psicofisica e con un atteggiamento di curiosità e spinta a crescere, nel senso di discendere sulla Terra, come dice James Hillman.
E’ importante valutare come alcuni schemi culturali possono mettersi tra noi e l’insegnamento universale dello yoga. Per afre un esempio, la nostra tendenza a guardare in “su” quando si parla di Spirituale, non ci permette di comprendere molti degli insegnamenti dello yoga, che ci chiedono di considerare che ciò che chiamiamo Spirituale è qui, sulla Terra.
Proprio perché nello Yoga non c’è una separazione fisica tra ciò che è terreno e ciò che è spirituale, tanti maestri yoga rispettano le tradizioni, pur riconoscendone il valore di transitorietà e relatività culturale. Questo è avere i piedi ben piantati nella propria cultura senza esserne schiavi, robotici esecutori. All’occorrenza un maestro può andare contro una regola sociale, ma solo se questo serve ai suoi discepoli. Il Maestro riconosce di essere calato in una relatività storico-culturale e ne accetta le regole, pur coltivando un animo libero da personalismi di ogni sorta.
Swami Sri Yukteswar, maestro di Paramahansa Yogananda, costringe quest’ultimo a diplomarsi, mettendo l’allievo in una situazione terribile, perché lui coltivava solo le relazioni con il suo maestro e per niente gli studi scolastici. Ma il maestro gli spiega che prendere il diploma era importante per la sua famiglia.
Questo è un altro punto che noi occidentali abbiamo preso in modo del tutto personale, tanti hanno visto nel cammino spirituale yoga un rifugio dalle responsabilità di questo mondo, un modo per alienarsi da una società in cui non riuscivano a entrare in sintonia. Non possiamo passare alla trascendenza verso cui ci spinge la via dello yoga se prima non mettiamo i piedi per terra e ci mettiamo alla prova nel luogo, non solo fisico, ma anche socio-culturale, in cui siamo. L’azione di discendere sulla Terra, dice Hillman, successore di Jung, è l’azione di crescere. Discendere nella nostra realtà in modo consapevole, porta a prendere coscienza del proprio relativismo culturale e anche personale, e pone le basi per l’apertura della mente ad altri punti di vista, tra cui quello dello yoga. Parole come samadhi, nirvana, meditazione, unità dell’io incarnato con il sé assoluto, citta vritti nirodha, risveglio dei chakra…rischiano di diventare parole vuote. Queste parole devono prendere vita e diventare il modo con cui ci relazioniamo con il mondo ,il modo di funzionare del nostro sistema integrato fatto di volontà percezione e pensiero, allora siamo dentro la via evolutiva che è lo yoga.
Come vedete per ora non ho mai parlato di Asana. Oggi se su Google scrivete “yoga” vi viene fuori tutta una serie di immagini atletiche di posizioni. La preparazione attualmente degli insegnanti di yoga è al 70% incentrata sulle asana. Tali posizioni ci sono arrivate o dai testi di Hatha Yoga o esportate da illustri maestri indiani in America, ma la via dello Yoga non è riducibile alle asana. Le asana assolvono ad una funzione, non sono lo Yoga. Le pratiche dello Yoga chiamato Hatha, in cui troviamo le asana e che quasi tutti in occidente dicono di fare, sono pratiche antiche, storicamente indicate per un essere umano diverso da ciò che siamo oggi. Lo Hatha Yoga include pratiche essenzialmente fisiche, alcune ‘violente’. Secondo autorevoli maestri come Alice Bailey, esoterista, astrologa e teosofa britannica e Rudolf Steiner fondatore della società Antroposofica, il senso dello Hatha Yoga risale all’epoca della razza umana lemurica, in cui l’essere umano era un essere molto più plastico di noi da un punto di vista fisico, con limitate capacità di autocoscienza, molto più connesso al mondo che lo circondava.
In Occidente alla parola Yoga oltre che le asana si associa la meditazione. Che cosa è la meditazione?
La meditazione è relazione consapevole. Gli stadi che portano gradualmente a sviluppare uno stato di concentrazione meditativa, descritti nel libro Yoga Sutra, di Patanjali, passano attraverso la relazione con un oggetto. Se non sappiamo entrare in relazione consapevole non sappiamo meditare. E la relazione consapevole è qualcosa che dobbiamo conquistare non solo come individui, ma anche come epoca storica e come società culturale. Oggi siamo tutto tranne che in relazione e siamo tutto tranne che consapevoli di noi e degli altri.
Una relazione consapevole è oltre la comunicazione attraverso la parola, lo sguardo, il tocco, è entrare in risonanza con l’oggetto di meditazione, identificarsi in modo cosciente con esso. L’espansione che ne deriva lascia il posto all’esperienza di entrare ‘in sé’, allora non c’è più né il soggetto, né l’oggetto, né l’atto di percezione, ma diveniamo tutte e tre le cose.
Quando riusciremo a mettere i piedi per Terra e vedere i nostri limiti culturali, allora potremmo, in punta dei piedi, portare il nostro senso ed arricchire la disciplina Yoga del nostro sapore culturale e epocale.
Elena Marano